Si è parlato molto, in questi ultimi anni, di un
ritorno della pittura, del piacere della materia, del valore di una manualità
che l'ascetismo mentale del Concettualismo aveva in qualche modo estromesso dal
campo dell'arte. Si è parlato soprattutto (e giustamente) di una riproposta da
parte del soggetto delle proprie insostituibili ragioni nel campo dell'arte e
non in questo soltanto. L'opera di Franzese ha raggiunto una sua indubbia
maturità proprio in questo contesto, nel quale, tuttavia, egli ha recato un
contributo tutto particolare. Voglio dire che Franzese ripropone anche lui le
ragioni del soggetto della pittura, il piacere dei colori e della materia, ma
sottopone questi fattori dell'arte a una sorta di detournement, di spostamento.
In qualche modo egli diffida di una soggettività che pretenda di trasferirsi
direttamente sulla tela quasi che l'interna pulsione sia in grado di trovare da
se i varchi, levigati e continui, verso il linguaggio, il linguaggio
storicamente determinato dell'arte e della pittura. Perciò egli si affida a un
processo formativo in cui tra il soggetto e l'oggetto, tra l'artista e la tela
si inserisce un terzo elemento, una sorta di filtro o schermo che determina una
distorsione, una deviazione, uno spostamento, appunto, dei percorsi pulsionali.
Questa terza cosa Franzese la chiede alla natura, agli elementi atmosferici,
all'aria, al vento, alla pioggia: sicché egli reintroduce questo dato
storicamente fondamentale di ogni pratica dell'arte ma non come termine di
riferimento di partenza e nemmeno come punto di arrivo della pratica pittorica,
quanto piuttosto come termine intermedio, come uno dei fattori del procedimento
formativo.
Si serve di polvere di colori e la distribuisce
sulla superficie della tela distesa a terra e poi lascia il supporto così
preparato all'azione degli elementi atmosferici che agiscono per conto proprio,
in modi in buona misura imprevedibili, modificando il programma predisposto
inizialmente dall'artista. Il fattore di distorsione è rappresentato quindi dal
caso, al quale Franzese chiede un intervento decisivo in vista della
configurazione finale dell'opera. Naturalmente, il risultato non è
completamente casuale ma si attesta sempre in un punto di equilibrio (che non
vuol dire giusto mezzo) tra le polarità complementari del progetto e
dell'imprevisto, della intenzione consapevole dell'artista e del fattore
aleatorio introdotto dal fattore naturale. Nelle opere recenti la relazione tra
queste due componenti del procedimento formativo posto in atto da Franzese appare,
sia pure leggermente, mutata, nel senso che, ora, l'artista interviene più
direttamente nella fase terminale dell'opera orientando con lievi tocchi
l'andamento di una linea, l'espandersi di un colore, l'accenno, inizialmente
casuale, a un dato naturale esterno. Il risultato è un rafforzamento della
componente intenzionale, senza però che questa si identifichi con una idea a
priori che pretenda di incanalare entro argini prestabiliti la formazione
dell'opera. In definitiva, l'idea iniziale accoglie liberamente l'intervento
casuale degli elementi atmosferici e solo dopo che questi hanno profondamente
inciso nel costituirsi dell'opera che l'artista ne accoglie le suggestioni per
intervenire nuovamente in prima persona, sempre, comunque, con discrezione e leggerezza.
Le immagini più definite che ora emergono dalla superficie del quadro ci
appaiono pertanto come un prolungamento di una macchia, l'intrecciarsi di più
linee, il rinsaldarsi di un colore e si presentano non come forme discrete e
finite quanto come presenze fantasmatiche, evanescenti, oniriche.
Filiberto
Menna (1986)
LA PITTURA D I LUIGI FRANZESE TRA PRESENZA E ASSENZA
Nei dipinti di Franzese, realizzati con una tecnica particolare, che ha un sapore di chimica e di alchimia, accanto a toni fondamentali proliferano e scintillano toni minori che rendono più fascinosa e magica la visione. Allo sfolgorio trionfante di azzurri, rossi, gialli, verdi, si associa il brillio meno intenso (ma non per questo meno suggestivo) di malva, viola, rosa, rame, oro, ametista, argento, porpora ed altre tinte. La gamma cromatica è vasta e splendida. Franzese attinge da essa come da un serbatoio inesauribile di fecondità e splendore. L'attingimento ha una soluzione di continuità oltre che di varietà nelle esecuzioni di opere che si succedono come in un crescendo sinfonico che acquista particolari timbri e scintillamenti sonori. Per ottenere tali peculiari effetti di intensità cromatica, Franzese manipola con molta cura e intelligenza gli ingredienti della sua ricetta pittorica. L'ispirazione e la concentrazione lo aiutano man mano a sistemare l'immagine centrale, il polo di attrazione che determina il senso dell'opera in formazione. Di questa egli elabora severamente la forma perchè non venga a diminuire la portata della pittura e nessuna rilassatezza di stile possa spezzare lo slancio dell'idea. In questo singolare modo di procedere egli è molto abile e accorto e attende sempre il “magic moment” per applicare le sue tinte sulle superfici dei pannelli che acquistano un originale fascino di leggerezza e lucentezza. Leggero è lo splendore e leggero il supporto su cui si posa e incanta: come la magica accensione d'una vampata di rossore sulla pelle di un viso di ragazza o come la luce solare sul colore di una corolla o petalo di fiore che ne accentua la luminosità. Questo singolare operare cromatico va ascritto ad esclusivo merito del giovane artista ed è frutto d'una personale “magia” inventiva che gli offre lo strumento per provare nuove e più seducenti possibilità pittoriche. Gli orizzonti del colore si aprono su scenografie che colpiscono per la loro bellezza e il loro mistero sospesi tra la realtà e l'irrealtà. In ogni paesaggio (o scorcio di paesaggio) non si sa mai se si è a contatto con la realtà o fuori della realtà: talvolta la presenza di rami o fogliame pendulo induce a pensare che l'occhio spazi in un ambiente naturale frequentato dall'uomo, ma l'incertezza permane e sorge il dubbio. Infatti, in altre scene, l'assenza di elementi naturali, facilmente riconoscibili, dà la sensazione di ritrovarsi in luoghi sconosciuti e inesplorati e quindi il contatto con la realtà si perde. Ma lo si ritrova di nuovo altrove con primi piani e sfondi reali mutati. Ne consegue che da questo apparire e sparire di realtà (come oggetti nelle mani di un prestigiatore) si coglie un gioco sottile di rimandi e agganci molto allusivi (e illusivi) sia alla natura esteriore che a quella interiore dell'artista. Il gioco s'inscena all'insegna della duplice essenza di presenza e assenza: l'eterno enigma dell'Essere che la mente umana si sforza invano di sciogliere per risalire alle origini della vita e alle fonti della creazione. Sul piano delle immagini e delle sorprese, che si rinnovano di volta in volta, come avviene negli spettacoli della natura, nell'osservazione di panorami nuovi, il corteo dell'immaginario pittorico messo in moto da Franzese può continuare all'infinito le sue sfilate folgoranti sulle passerelle dell'arte. Con stupore e delizia dell'occhio si assiste a questo fantasmagorico passaggio di scenari, di quinte cambiate, di fondali, che presentano sempre motivi nuovi di attrazione e di fascinazione. Il cambio di scena non stanca: anzi si fa sempre più eccitante ed esaltante perchè l'uomo è assetato di novità e mai sazio di penetrare (ed alimentare) misteri, di sognare, pensare, contemplare, creare miti, ammirare la luce del giorno e meditare sulla luce dell'arte che gli rivela il senso delle cose create. In queste opere, che appartengono alla produzione recente di Franzese, è indubbio il grado di maturità raggiunto e il salto di qualità operato, rispetto a cicli di opere più tarde. La loro composizione è serrata e armoniosa: nessuna di esse mostra segni di improvvisazione, splendide superfluità dovute alla casualità o alla banalità. Buone dosi di gusto, raffinatezza, misura, pongono Franzese in uno stato costante di sorveglianza e osservanza alle regole pittoriche e a un metro compositivo ed espressivo che formano la cifra del suo linguaggio artistico. Il suo lavoro richiede una continua tensione per progettare ed elaborare un'opera nuova con l'originalità e la profondità che egli si è prefisso di dare ad essa con una precisa focalizzazione di visione ed un uso accorto di toni e tocchi. Alla tensione si aggiungono serietà e rigorosità di metodo di lavoro che sono quasi sempre premiate dalla bontà dei risultati. E, proprio sulla scorta (e col conforto) di tali risultati, si direbbe che Franzese coltivi (la segreta, ma non tanto) ambizione di entrare in gara con la natura stessa, maestra ispiratrice delle sue creazioni. La tentazione è nel raffrontare la qualità “magica” dei colori dei propri dipinti con quelli infiniti della natura: sogno di ogni artista che ritiene di poter imprimere il segno dell'eterno al suo piccolo universo creato.
Nei dipinti di Franzese, realizzati con una tecnica particolare, che ha un sapore di chimica e di alchimia, accanto a toni fondamentali proliferano e scintillano toni minori che rendono più fascinosa e magica la visione. Allo sfolgorio trionfante di azzurri, rossi, gialli, verdi, si associa il brillio meno intenso (ma non per questo meno suggestivo) di malva, viola, rosa, rame, oro, ametista, argento, porpora ed altre tinte. La gamma cromatica è vasta e splendida. Franzese attinge da essa come da un serbatoio inesauribile di fecondità e splendore. L'attingimento ha una soluzione di continuità oltre che di varietà nelle esecuzioni di opere che si succedono come in un crescendo sinfonico che acquista particolari timbri e scintillamenti sonori. Per ottenere tali peculiari effetti di intensità cromatica, Franzese manipola con molta cura e intelligenza gli ingredienti della sua ricetta pittorica. L'ispirazione e la concentrazione lo aiutano man mano a sistemare l'immagine centrale, il polo di attrazione che determina il senso dell'opera in formazione. Di questa egli elabora severamente la forma perchè non venga a diminuire la portata della pittura e nessuna rilassatezza di stile possa spezzare lo slancio dell'idea. In questo singolare modo di procedere egli è molto abile e accorto e attende sempre il “magic moment” per applicare le sue tinte sulle superfici dei pannelli che acquistano un originale fascino di leggerezza e lucentezza. Leggero è lo splendore e leggero il supporto su cui si posa e incanta: come la magica accensione d'una vampata di rossore sulla pelle di un viso di ragazza o come la luce solare sul colore di una corolla o petalo di fiore che ne accentua la luminosità. Questo singolare operare cromatico va ascritto ad esclusivo merito del giovane artista ed è frutto d'una personale “magia” inventiva che gli offre lo strumento per provare nuove e più seducenti possibilità pittoriche. Gli orizzonti del colore si aprono su scenografie che colpiscono per la loro bellezza e il loro mistero sospesi tra la realtà e l'irrealtà. In ogni paesaggio (o scorcio di paesaggio) non si sa mai se si è a contatto con la realtà o fuori della realtà: talvolta la presenza di rami o fogliame pendulo induce a pensare che l'occhio spazi in un ambiente naturale frequentato dall'uomo, ma l'incertezza permane e sorge il dubbio. Infatti, in altre scene, l'assenza di elementi naturali, facilmente riconoscibili, dà la sensazione di ritrovarsi in luoghi sconosciuti e inesplorati e quindi il contatto con la realtà si perde. Ma lo si ritrova di nuovo altrove con primi piani e sfondi reali mutati. Ne consegue che da questo apparire e sparire di realtà (come oggetti nelle mani di un prestigiatore) si coglie un gioco sottile di rimandi e agganci molto allusivi (e illusivi) sia alla natura esteriore che a quella interiore dell'artista. Il gioco s'inscena all'insegna della duplice essenza di presenza e assenza: l'eterno enigma dell'Essere che la mente umana si sforza invano di sciogliere per risalire alle origini della vita e alle fonti della creazione. Sul piano delle immagini e delle sorprese, che si rinnovano di volta in volta, come avviene negli spettacoli della natura, nell'osservazione di panorami nuovi, il corteo dell'immaginario pittorico messo in moto da Franzese può continuare all'infinito le sue sfilate folgoranti sulle passerelle dell'arte. Con stupore e delizia dell'occhio si assiste a questo fantasmagorico passaggio di scenari, di quinte cambiate, di fondali, che presentano sempre motivi nuovi di attrazione e di fascinazione. Il cambio di scena non stanca: anzi si fa sempre più eccitante ed esaltante perchè l'uomo è assetato di novità e mai sazio di penetrare (ed alimentare) misteri, di sognare, pensare, contemplare, creare miti, ammirare la luce del giorno e meditare sulla luce dell'arte che gli rivela il senso delle cose create. In queste opere, che appartengono alla produzione recente di Franzese, è indubbio il grado di maturità raggiunto e il salto di qualità operato, rispetto a cicli di opere più tarde. La loro composizione è serrata e armoniosa: nessuna di esse mostra segni di improvvisazione, splendide superfluità dovute alla casualità o alla banalità. Buone dosi di gusto, raffinatezza, misura, pongono Franzese in uno stato costante di sorveglianza e osservanza alle regole pittoriche e a un metro compositivo ed espressivo che formano la cifra del suo linguaggio artistico. Il suo lavoro richiede una continua tensione per progettare ed elaborare un'opera nuova con l'originalità e la profondità che egli si è prefisso di dare ad essa con una precisa focalizzazione di visione ed un uso accorto di toni e tocchi. Alla tensione si aggiungono serietà e rigorosità di metodo di lavoro che sono quasi sempre premiate dalla bontà dei risultati. E, proprio sulla scorta (e col conforto) di tali risultati, si direbbe che Franzese coltivi (la segreta, ma non tanto) ambizione di entrare in gara con la natura stessa, maestra ispiratrice delle sue creazioni. La tentazione è nel raffrontare la qualità “magica” dei colori dei propri dipinti con quelli infiniti della natura: sogno di ogni artista che ritiene di poter imprimere il segno dell'eterno al suo piccolo universo creato.
Giuseppe Bilotta (1986)
ROSSO CHE LA PROPRIA PENA DIVORA
Franzese è un pittore di San Giuseppe
Vesuviano. Vive sul collo del monte come un fanciullo sul corpo grande del
padre, vi spia la propria paura e getta dentro il baratro che non vede le
monete di una disperazione serena, la mitezza colma d'ira che nasconde, e
asseconda, il suo sorriso di fanciullo innocente. Lui è un artista che non
pretende altro se non raccontare, dire il fuoco della montagna che lo
impaurisce e attrae. Quando si stacca di pochi chilometri dal suo vulcano gli
sembra di andare troppo lontano da se stesso, di fare un viaggio imperdonabile,
uno di quegli emigranti con la valigia pesante, che aspettano sul molo la nave
e arriverà soltanto il giorno dopo. In quella valigia grande e slabbrata,
tenuta a stento chiusa, c'è tutto. Guai ad aprirla senza essersi fatti il segno
della croce, solo allora la madre dalla veste nera si siede - anche lei - sulle
pietre e aspetta che nel mezzo della notte appaia il Vesuvio. Abbiamo pronunziato la parola che è seme di tutta la
processione delle sue immagini, Vesuvio, il nudo corpo di ogni
rappresentazione di cui sia capace. Il Vesuvio è neve e pietra vulcanica,
lavagna e gesso, urlo e lacrime. Franzese è un pittore arcaico, ha nel suo
ricordo più antico, sbiancato, una ferita da cui inizia ogni cosa, la
fornace, il camino, la bocca aperta dei Destino da cui esce la fiamma che noi
non riusciamo a vedere e lui già ne sogna e trema. Anche quando dipinge il mare
è costretto dal suo segreto a segnare un filo di rame tra le onde, che ferma a
volte con un rigo di sangue. E', questo troppo amore, il limite di Franzese,
lui lo sa, quando testardo tesse d'aghi il tempo di una natura addormentata, i
fiori aperti, due cavalli che s'urtano correndo sulla spiaggia e poggiano l'uno
sull'altro il collo, nitrendo. E le lune cadono, sembrano coltelli. il Vesuvio
che dipinge è sempre in festa e grida. La sua pittura la puoi sentire cantare,
sono sempre gli stessi versi, ma s'alzano come cateratte a liberare il fuoco
che sale. Il Vesuvio per lui è la casa in festa degli dei dove il magma scende
come i capelli di una donna, senza fretta, il fuoco s'apre in altro fuoco, e
arde, e ancora arde suggerendo nuovi ornamenti, nastri più rossi che scendono
dall'impareggiabile vetta.
Rino Mele (2003)
IL TEMPO COME SCGLIERA
DEL FUTURO
Mor mir war Keine Zelt,
nach mir wird keine seyn.
Mi mir gebertsie sich,
mit mirgeht sie auch ein.
Prima di me non era
alcun tempo,
dopo di me non ce ne
sarà.
Con me esso nasce,
con me esso perisce.
Daniel von Czepko
Come sempre (e questo credo che accada di
frequente a chi ha il vezzo di porre delle citazioni in epigrafe) non sono del
tutto chiare le ragioni che hanno portato a una scelta piuttosto che a
un'altra. Nè si può essere certi, fino in fondo, della funzione che la
citazione è chiamata ad assolvere rispetto al testo. A volte è una chiave di
lettura chiusa tra chi scrive e l'altro da sè che legge. Altre è diretta a
segnare la complice ambiguità che è dentro il linguaggio. Altre a istituire una
sorta di referenzialità “alta”. Altre ancora, come forse è nel nostro caso, è
soggettivamente e volutamente indirizzata a chi sa e si sottrae ad ogni
processo di esistenza possibile. Di più sarebbe inutile dire. Letta però in
questa ultima chiave la citazione, desunta del resto da Borges di Otras
Inquisiciones, non si pone sulla stessa matrice di confutazione del tempo
borgesiana, cosi come accade nel testo Nuova confutazione del tempo, ma intende
istituire il cardine entro cui il tempo, il mio tempo, scorre. Il binario cioè
che, in qualche modo, legittima la veridicità del Tempo entro me stesso; per
cosi dire. In questa ottica, passato e futuro non esisterebbero se non come
puro schemata; esiste però l'indivisibilità del presente, la vertigine del
presente. Il problema è comprendere quale sia la natura di questa vertigine. E
quali panni vesta. E come può essere rappresentata – E’ rappresentata come si
consegna al passato e come si proietta verso il futuro. E qui siamo già a Luigi
Franzese, il cui lavoro - mi sembra - è tutto racchiudibile in questa idea di
tempo, in questo balletto della memoria nel tempo, in questo “frammento” del
tempo come segno di una differenza che regola l'uscita dell'uomo da una
mondanità quotidiana. E siamo ancora a Luigi Franzese se pensiamo al tentativo
di sottrarsi, giusto quanto afferma Baudrillard in Per una critica della
economia politica del segno, alla letteralità formale del gesto per iscrivere
il gesto in un concetto di valore autentico
volto a recuperare la realtà. E quindi a non cedere di fronte alle medie della
duplicazione, della successione e della differenziazione della “diffrazione
seriale”, che, in quanto tale, omologa, come segno di un'assenza, il mondo
degli oggetti, e se ne fa complice. Certo, Franzese non riesce ad eliminare o a
evitare le ambiguità insite proprio nel reparto del simbolico ma non si può
negare che il suo gesto tenda, innanzitutto, a delegittimare ogni serialità col
porsi come indivisibile totalità riflessiva in raccordo e in raccolta a un
mondo non più racchiudibile interamente nello scambio simbolico. Il tentativo
non è di poco conto. La rottura s'avverte ed è una rottura che risiede non solo
nel gesto. Ma nella percorribilità stessa del
segno. Che non si chiude in una costrizione formale ma è un atto che,
gesto dopo gesto, atto dopo atto, e di atto in atto, per quanto discontinuo
esso sia e per quanto s'assiepi in un frammento di temporalità, si oggettiva
nella ricerca della propria soggettività decentrata. E, attraverso
l'oscillazione discreta del linguaggio, coglie in sè il mondo nella sua
sostanza. Simbolica, naturalmente. Questo percorso si dà nell'atto stesso con
cui Franzese nega ogni autenticità, ogni esclusività al gesto col rifiutare
ogni pietosa ideologia che tenda alla singolarità, dell'opera e, dunque,
rimandi, in certo qual modo, a quanto Benjamin afferma circa l'aura. Di fatto,
il suo gesto non è ermeneutico. Oscilla come la precarietà del linguaggio tra due
poli. Quello della casualità ordinata e quello di un utilizzo e impiego
“negativo” degli agenti atmosferici. Dico negativo in quanto la tela, per
Franzese, diventa il tessuto assorbente della luce come accade in una pellicola
fotografica. Agisce cioè da sostrato d'ombra. E quest'ombra agisce come
parvenza, come immagine illusoria di un mondo intuito e che è altro dal reale anche
se prolunga l'istantaneità di quell'apparire e in certo qual modo la trascende.
La natura, l'idea della natura che nelle opere precedenti, geometrico - minimali,
veniva imprigionata nella grata del parallelepipedo, sottolineata e resa, per
dir così, tridimensionale in virtù dell'oggetto che l'accoglieva, ora si
ribalta sulla tela, come specchio della realtà e frammento evocativo. Da qui la
mediatezza della memoria rimemorante che, per una sorta di sfalsamento, si
distorce in una varietà di segni - colore, a volte grumosi, talaltra
pellicolari, talvolta impalpabili come l'atmosfera. Questa tensione verso
l'accoglienza della natura nelle pieghe della tela, non recita uno scacco
dell'artista ma, all'opposto, testimonia l'infinita e sempre nuova varietà dei
procedimenti. Che è un procedimento di corrispondenza, sia pure frammentario, e
in trasparenza con la natura e con i suoi nessi atmosferici. Il suo è un segno
libero da codificazioni: si fa nel suo stesso farsi. Di ascendenza informale,
quindi. Di una gestualità pertanto liberata e affrancata da ogni impedimenta e
che tende alla liberatoria carica energetica della tecnè. Almeno nella misura
in cui vento e aria filtrano il libero propagarsi a pioggia dei colori in
polvere sulla superficie assorbente della tela, già preparata ad accogliere le
pulsanti variazioni della natura. Dopo il primo fissaggio che mima il caos
originario, l'incontro tra materia e forma viene ripercorso dall'artista
attraverso il filtro di luce - ombra che l'oggetto reale crea, nel riporto,
sulla tela. Le tracce dell'ombra riportata, ora un profilo di una montagna ora
il rigoglio di pampini di uva, ora il cupo frangersi di uno spazio ora la
distesa siderea del cielo, si trasformano in una concezione di durata, che si
apre indefinitivamente in noi per farci riconquistare la perduta libertà
interiore. E per questa via tra realtà fenomenica e suggestione visiva si attua
una sorta di spiazzamento che riflette, da un lato, la precarietà del
linguaggio e, dall'altro, l'essere che si dona alle, infinite valenze del
linguaggio stesso e che, in certo qual modo, sussume il linguaggio entro di sè
e ne fa un proprio schieramento concettuale. Di un ordine concettuale che, nel
momento stesso che si pone l'idea della spazialità, la ordina in una cospicua
frammentazione temporale. Di un tempo che, proprio per la sua stessa
dimensione, assume su di sè, in forme ristrette, la dilatazione del tempo e lo
assorbe in una pulsionalità di colore vibrante che sembra porsi come specchio
infinito dell'essere. E l'essere, per questa via, dichiara il suo esserci, il
suo modo di dispiegarsi nel linguaggio, evitando di cadere nelle secche della
diffrazione seriale. O meglio: nella dinamica dell'oggetto che, in quanto
cifra, si dispone nella stessa sistematica dell'oggetto merce. Il frammento del
paesaggio, i cespi del Vesuvio, gli orizzonti maculati di stesure di azzurro,
gli squarci improvvisi, a macchia, della materia nei quadri di Franzese non
sono quindi un modo ingenuo di cadere nella simulazione, nè in una condizione
di semplice rispecchiamento. Anzi, al contrario, si aprono, con motu proprio,
su un labirintico deserto di linee che s'intrecciano, s'intervallano,
s'incrociano, si accavallano per racchiudersi in una grande idea della natura,
con un grande trasporto d'amore verso la territorialità vissuta del paesaggio
dell'artista che giustifica l'epigrafe in catalogo: “felix qui potuit rerum cognoscere
causas”. Le cause per Franzese sono tutte interne alla pittura. E nello
stesso tempo, in parte, esteme. La sua indagine, la sua investigazione sulla e
con la materia se, da un lato, intende o si protende verso una poetica della rèverie
del paesaggio, dall'altro si connette al bisogno di non lasciarsi ingenuamente
captare dal paesaggio ma lo ricerca e ricreandolo attua quella sorta di
snidamento dell'immagine che diviene il punto focale e l'essenza del suo
esserci. Un modo questo per ritrovarsi e, ritrovandosi, nella frammentata
condizione del Tempo porsi come ordine dell'ordine del tempo e della rimemorazione,
nel senso indicato da Heidegger. E con Heidegger, Franzese raggiunge quella dimensione
del linguaggio che è qualcosa di essenzialmente sopra - sensibile, qualcosa che
perennemente oltrepassa il puramente “sensibile”. Questa natura nuova della ricerca
di Franzese sembra non essere minimamente avvertita. Per due ragioni: o si
confonde la figuratività come rispecchiamento ingenuo o come “crisis”. E non si
guarda altro. Chi invece lo fa, resta esterno al perimetro o, non matura la
trascendenza trascesa dello sguardo che è o può essere di natura metafisica.
Come accade a J.M. Gibbal che, ordinando per il Centro Nazionale delle Arti
Plastiche una mostra dal titolo “Sols”, tra le - mille e una ipotesi che tale
connotazione intellettuale del termine poteva assumere, pur catalogando le
varietà dei repertori dell'immagine - sguardo, si riduce a esplicitare e a
giustificare gli artisti invitati come coloro che “tentent de redècouvrir et de
redèfinir les rapports de l'homme avec les elements naturels... L'ensemble de
leurs actions oscille entre une volontè d'intervention sur le milieu et le desir
de renouer avec les harmonies perdues eri se fondant Funivers”. E così facendo
non correla l’interno con l'esterno, non vede come il linguaggio per sua natura
metafisico riconquista in un modo più originario ciò che è stato. Anche quando
si pone come “ripetizione” che non significa semplice “iterazione del sempre
uguale, bensì invece: l'attingere, l'acquisire, l'adunare quel che si cela
nell'antico”. Azioni che, mi sembra, Franzese ha presente e che oggettiva e
porta alla luce con un affiorante disoccultamento che costituisce il fascino
della sua eco “dispersa di un appello lontano” come luogo labirintico e
fascinosa fantasmagoria fantasmatica della sua vocazione onirica. Vocazione che
convoglia in sè il tempo e che gli fa assurgere quella stringente presenza
spaziale che solo il soggetto in quanto soggetto può porre e che, per altre
vie, legittima l'epigrafe in apertura. E Franzese come von Czepko può
racchiudere la dimensione temporale nello spazio evocante della sua operatività,
testimoniando il confine della sua operosità ma, di fatto, proiettando sia
l'una che l'altra verso le scogliere del futuro
Gerardo Pedicini
(1996)
La straordinaria qualità della pittura che
si esprime in un sottilissimo volgere di toni, in accensioni improvvise che
fanno vibrare la materia dall'interno come per lenta, insistita pulsione, è
certo ciò che più avvince nell'opera del giovane Luigi Franzese, ma credo che
sarebbe limitante, anche se non errato, arrestarsi nella lettura a questo
aspetto di una immagine la cui valenza allusiva non si lascia chiudere nel
cerchio magico della misura formale autosufficiente. Franzese mette infatti in
atto una serie di provocazioni dinamiche che, per restare all'interno del ben
definito spazio di superficie - un rettangolo, un arco che emergono da fondali
di bianco assoluto o che vi sprofondano - non tendono meno a sommuovere
d'inquiete tensioni la trama materica che la luce attraversa come un flusso
d'energia rivelatrice d'infinite potenzialità di racconto. Pittura - racconto
potrebbe infatti definirsi questo inarrestato fluire di sensazioni luministiche
e cromatiche, ma nel senso che la materia del pittore narra se stessa
attraverso un dipanarsi sottile di trame che, pur continuamente cangianti, si
legano nella compattezza del tessuto e giungono a formare (e a fermare) una
immagine che vive di ritmi propri, sfuggenti e insieme ineludibili. Io credo
che le tele di Luigi Franzese presentino un grado altissimo di variabilità non
tanto perchè in esse batte una memoria, ma quanto puntigliosamente controllata,
del disordine informale, ma perchè l'artista vi esprime una sua lirica
propensione a sfaldare in gioco atmosferico ogni residuo naturalistico. Va da
sè che nulla in Franzese può giustificare una lettura in chiave meramente
panica o irrazionalistica. Ho già detto della solida base strutturale a cui si
fissano anche le composizioni più squisitamente dirompenti, più folte
d'insinuazioni simboliche. Occorre inoltre tener conto che Franzese ha
alternato la pittura con una ricerca di strutture al limite del concettuale,
anche se la sua irreprimibile vocazione alla contaminazione lirica l'ha
fatalmente e coerentemente indotto a correggere la rigidità dell'elemento
razionalistico con interventi materici e cromatici che han portato l'opera a
esiti di felicissima ambiguità. Nelle composizioni con rete metallica, nastri
colorati e fibre di vetro, era soltanto reso esplicita la dialettica fra
struttura e superficie che nelle opere di pittura agisce come segreto elemento
coagulante di tensioni cromatiche che tendono a dilatarsi secondo un processo
d'espansione materico - spaziale di timbro neobarocco. Mi sembra vi sia
nell'artista di San Giuseppe Vesuviano una progressiva tendenza alla
dilatazione, ma non alla dissoluzione, del momento che definiremo materico. Il grumo
originario, magmatico, ancora carico di ruvide incrostazioni della materia - colore,
progressivamente si scioglie in trasparenze luminose. Ed è come se un
agglomerato vagante nelle più cupe profondità dello spazio venisse ad
infrangersi per interna esplosione e farsi impalpabile pulviscolo atmosferico
che solo la luce può rivelare. Questi frammenti in cui a dominare è ancora il
tono delle terre si ordinano in luminosità stranite, floreali (perciò prima ho
parlato di insinuazioni simboliche) nel quadro ove l'immagine si costruisce per
avanzamenti e sprofondamenti nel bianco, in una cornice che ferma l'arco del
dipinto in una sorta di fiorita estasi barocca. Se non vado errato, questo processo
che ha dato esiti già tanto convincenti va nel senso di una più gelosa
apprensione dei valori non solo della pittura-pittura, ma anche di una
rivisitazione dei luoghi classici dell'arte, con qualche nostalgia ma senza
tentazioni d'anacronismo. Questa pittura, insomma, ha in sè le ragioni della
propria desiderante, ambigua modernità. Il che la rende ad un tempo attuale e
inattuale: proprio come ciò che chiamiamo poesia.
Franco Solmi (1986)
VEDERE E PENSARE
Vedere e pensarhe il sene:
è questo il fascino della pittura, quell’emozione profonda che ci
prende dinanzi a un quadro e che ci attrae nella successione di quadri
di una mostra, di un catalogo, o semplicemente di una galleria d’un
antico palazzo, o di una chiesa.
Vedere e pensare : questo anc
so sintetico di una delle correnti filosofiche, e più in generale culturali, che hanno espresso lo “spirito del tempo” del Novecento, il suo desiderio di andare “al concreto”, “alle cose stesse”, vale a dire la fenomenologia.
Ma vedere e pensare è possibile quando intelletto e immaginazione, logica e vita, necessità e contingenza , regola e caso, sistema e libertà miracolosamente, misteriosamente si fondono, si rinviano reciprocamente, si stringono in un circolo, in un “infinito intrattenimento”.
Lo aveva compreso ed enunciato esemplarmente Kant, pur nel linguaggio razionalistico della cultura settecentesca, quando ha cercato di definire la bellezza artistica. “Davanti a un prodotto dell’arte bella – egli scrive nella Critica del giudizio – bisogna aver la coscienza che esso è arte e non natura; ma la finalità della sua forma deve apparire libera da ogni costrizione di regole volontarie, come se fosse un prodotto semplicemente della natura. Su questo sentimento della libertà nel giuoco delle nostre facoltà conoscitive [ cioè intelletto e immaginazione, ragione e sensibilità], che dev’essere nel tempo stesso finalistico, riposa quel piacere che solo può essere universalmente comunicato, senza che tuttavia si fondi su concetti”. C’è un pensiero visivo, c’è un pensiero che sa abbracciare in sé l’immagine, il senso. Non è mero sentire, ma neppure puro pensiero, ma un loro misterioso cospirare. Se il bello è incrocio di regola e caso
(come recita il titolo di un bel libro del nostro indimenticabile maestro, in fatto di critica d’arte, Filiberto Menna), e se, per il Kant della Critica del giudizio, il naturale è ciò che è spontaneo, che cresce da sé, e l’artistico è il momento della produzione secondo regole, allora per lui , l’arte deve apparire come natura e la natura come arte: “Vedemmo che la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte; l’arte, a sua volta, non può esser chiamata bella se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura”.
(come recita il titolo di un bel libro del nostro indimenticabile maestro, in fatto di critica d’arte, Filiberto Menna), e se, per il Kant della Critica del giudizio, il naturale è ciò che è spontaneo, che cresce da sé, e l’artistico è il momento della produzione secondo regole, allora per lui , l’arte deve apparire come natura e la natura come arte: “Vedemmo che la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte; l’arte, a sua volta, non può esser chiamata bella se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura”.
Ma che vuol dire che l’arte bella deve apparire come natura? Non che essa sia priva di ordine, priva di forme , ma, al contrario, che l’ordine e le forme- il suo strutturarsi, il suo farsi linguaggio, si presenti come un dato immediato, “ senza sforzo – aggiunge Kant - senza che trasparisca la forma scolastica, vale a dire senza che per alcuna traccia si veda che l’artista ebbe la regola sotto gli occhi e le facoltà del suo animo furono inceppate” ( I. Kant, Critica del giudizio, §45).
Ecco, ho pensato sia a Kant che alla fenomenologia, quando ho “visto” alcuni quadri di Luigi Franzese tratti dai cicli della metà degli anni ’80 ( ’85-86) intitolati “L’orizzonti degli eventi” e “L’aurora degli eventi” .
Il vedere queste tele dà immediatamente l’idea di un naturale affiorare di ordine, libertà e caso : disegni molto precisi , per esempio di rami di alberi, o di un cespo di foglie larghe o di ramoscelli d’ulivo, mescolati sullo sfondo dello scintillare casuale, libero, di una fioritura sospesa nell’aria, con un colore stupendo da cielo d’estate al tramonto o con un contrasto di chiaro e scuro su uno sfondo azzurro. Oppure l’apparire di un luminoso chiarore dentro un intrico di segni che potrebbero essere le chiome degli alberi di un bosco. O ancora l’emergere in primo piano di un cespuglio su uno sfondo luminoso appena segnato da gocce di rugiada.
Ho pensato a Kant per il giuoco di intelletto e immaginazione, di arte e natura, di regola e caso. E in questa mia impressione di una pittura concettuale, fortemente soggettiva, che però sa presentarsi come natura, sa oggettivarsi combinando ordine e contingenza, sono stato confortato dalle osservazioni di Filiberto Menna riferite proprio alla produzione di Franzese di questi anni, secondo cui la relazione soggetto –oggetto , artista-opera è filtrata da un terzo fattore, che è la natura stessa, provocata, con la casualità del vento, del caldo, del freddo, della pioggia, a modificare la disposizione della materia sulla tela, cioè delle polveri di colore. Così si ottiene una configurazione finale dell’opera, che ovviamente, osserva Menna, non è tutta casuale, “ma si attesta sempre in un punto di equilibrio […] tra le polarità complementari del progetto e dell’imprevisto, della intenzione consapevole dell’artista e del fattore aleatorio introdotto”.( dal Catalogo “ Franzese. Opere 1984-86” , Spazio Edizioni) .
Del resto, se ai cicli “L’aurora degli eventi” e “L’orizzonte degli eventi”, aggiungiamo il ciclo “Eventi della materia”, possiamo ricavare un’indicazione preziosa per la comprensione della pittura di Franzese, almeno di quella fase: la convinzione cioè della manifestatività del reale, della stessa materia (evento- fenomeno - manifestazione) e insieme della sua dinamicità, il suo essere esposto originariamente al mutamento, più precisamente al repentino; e il tentativo dell’artista di cogliere il momento sorgivo (l’aurora) e il confine degli eventi, l’orizzonte di senso degli eventi.
E qui mi riattacco alla fenomenologia, e in particolare a Heidegger e alla nozione immaginifica di Lichtung che vuol dire illuminazione, squarcio di cielo nella radura del bosco fitto, con cui Heidegger indica la verità. Questa è l’impressione di più di un’opera caratterizzata da una luce centrale entro un contorno che potrebbe essere il fitto fogliame e intrico di rami di un bosco o un contorno di nuvole arrossate dai riflessi del sole.
La bellezza e la verità come misterioso legame di regola e caso si evidenzia ancora in quella che a me pare l’opera più bella di Franzese, vale a dire Materia del 1988, anche per la incomparabile differenziazione e fusione dei colori.
Del 1990 sono le tele dedicate al Vesuvio ( Deserto del Vesuvio, ma anche “Grande natura” ) dove il bello slitta nel sublime e si afferra il senso dell’oltre, dell’illimitato. Diverso, meno intenso, più calligrafico, e forse ironico “Cespi del Vesuvio” e, in fondo, anche “Astralità” con strani oggetti volanti.
Il tema dell’arte/natura si lascia decifrare, ma con una declinazione più inquietante, anche nel ciclo “Entropia vesuviana” del 1992. E, soprattutto, ritorna, con uno scandaglio psicologico che penetra la materia e sembra interrogarla ( la duplicazione del profilo con diversi colori), nell’opera del 2006, “Materia vesuviana”, molto interessante anche per l’inserimento diretto dell’elemento materico mediante il reperto vulcanico.
Lo slittamento dal bello al sublime , a sua volta, ritorna (come ha ben visto Vito Maggio nel Catalogo della mostra “La materia ,l’uomo, il mistero del 2002) nell’incrocio finito-infinito della figura del Cristo Crocefisso che si sta per distaccare dalla terra ( da sofferente per i mali del mondo, non da trionfatore) nella pala collocata nella chiesa di Santa Maria la Pietà a San Giuseppe Vesuviano.
Giuseppe Cantillo
VESUVIO TRA MATERIA ED ENERGIA
Non posso arrogarmi competenze e capacità critiche in campi in cui non ne ho, di specifiche, almeno. Ma di fronte all’opera del “pittore vesuviano” Luigi Franzese – che ha già al suo attivo una bella parte di vita dedicata all’arte – mi viene da ricordare quanto ho avuto modo di osservare tempo fa sul rapporto tra il vulcano e la gente che vi vive sopra.
L’occasione era data dall’analisi di due diverse realtà, caratteristiche di altrettanti paesi, o cittadine, dell’area vesuviana, appunto, che mi spingeva a rilevare come nell’un caso avveniva, o era avvenuto, che l’energia incontenibile del Vesuvio trasfondesse negli abitanti la forza di un motore che giri al minimo (energia viva, ma trattenuta); nell’altro, invece, agisse un vigore propositivo, esplicito, a tratti prorompente.
Credo che Luigi Franzese, e, ovviamente, la sua pittura, debbano molto a questo “essere vesuviani”, nel senso che solo la straordinaria montagna dal fuoco nelle visceri, adagiata immobile sul mare del golfo (e, peraltro, in questo rapporto di statica contemplazione, quasi di desiderio irraggiungibile tra i due elementi, risiede il filo conduttore di una delle più belle narrazioni del mito della nascita di Partenope) può suggerire, compendiandola, la più corposa dimensione ‘materica’ e, insieme, tutto quanto può trascenderla, l’andare oltre.
A ragione, quindi, critici d’arte autorevoli, che di Franzese hanno seguito i passi salienti del suo impegnativo percorso, hanno messo in risalto la sua cifra stilistica, individuata nella capacità di dilatare la materia, senza farla mai sparire, fino a scioglierla in trasparenze luminose. Certo, solo la pittura può compiere il ‘miracolo’ di dematerializzare la materia e renderla luce, lume.
E’ difficile, naturalmente, penetrare davvero la poetica di un artista, e tuttavia ci si può approssimare, aiutandosi con la conoscenza diretta, con le parole carpite da colloqui-interviste. Di qui, i riferimenti, particolarmente illuminanti, all’<<entropia vesuviana>>, lo scambio di calore ed energia, tra interno ed esterno; o, alle ragioni profonde dell’artista, o, meglio, dell’arte in sé e nelle sue disparate forme, capace “di risvegliare sensibilità assopite ma sempre presenti nell’uomo”.
In definitiva, tanti motivi di compiacimento per quest’ulteriore appuntamento con la pittura di Luigi Franzese, a cui mi sento di augurare ancora lunga e fortunata operosità, … a nome e per conto dello <<sterminator Vesevo>> tanto caro al Poeta, non vesuviano di nascita, ma di parte importante della vita e che tra i vesuviani volle chiuderla, consegnandosi ad un destino di echi e risonanze immortali.
Guido D’Agostino
HIC EST VESBIUS...
Luigi Franzese ha per orizzonte il Vesuvio. Lo vede e lo scruta tutti i giorni dal terrazzo di casa sua e, trepidante, l’ausculta. Come un sismografo o altro strumento di ricerca sull’altro versante, quello dell’Osservatorio. Ne cerca le tracce nascoste, le linee che, tra gli anfratti e i frastagli, ne delimitano i sentieri segreti, come cicatrici di lave aggrovigliate lungo la schiena incurvata, e ne fissa le possibili spazialità entro cui, poi, si stempera la sua pittura. Il Vesuvio, ecco, l’errante che basta a se stesso coi limiti entro cui si staglia lo spazio che occupa e che, giorno per giorno, disegna la sua immagine mutevole e svettante fra cielo, terra e mare; e, su di esso, i passaggi delle stagioni e dei colori, la flora e gli uccelli e le nuvole che vi pascolano intorno, sono i motivi profondi della sua pittura, la materia e il pensiero che, insieme aggregati, gli suggeriscono forme e colori. Rette e curve, sinusoidi che, intrecciate fra loro, sono linguaggio, grumi di umori rifatti coi rapimenti e gli scoscendimenti del pensiero, accensioni visionarie nei seni oscuri e vuoti determinati dalle ombre, nelle profondità vischiose e sobbalzanti, ove ribolle magmatico il fuoco acceso in un tempo assai lontano, vocabolario infine, denso e pieno, per tessere un discorso persuasivo intorno a un mondo condizionato dalla presenza di una montagna molto particolare per storia, cultura e natura. “Formidabil monte” quindi, come lo apprendeva il Leopardi per restituircelo attraverso la poesia. Da qui nascono i materici sogni disegnati e dipinti da Franzese, i suoi profondi sussulti di dissimulato naturalismo; e questo è anche il suo vocabolario figurale, la sua tavolozza, il suo impasto persuasivo e fuor di norma (insieme), le sabbie che si mischiano ai colori, le campate distese, diluite o appena accennate come piogge primaverili, gli intrighi arricciati sulla tela attorno a un foro, a un uncino o a un sasso viola, posti a suggello tra cieli estremi e fior di lapilli svolazzanti come farfalle o intrepidi uccelli, che sembrano stelle eruttate dalla cima del monte. È un Vesuvio, il suo, d’immagini libere e cogenti insieme, talvolta gentile e sereno, idilliaco come nel tempo dei tempi era il canto della sirena che emergeva dalle acque del golfo, fraterno quasi nelle sue quotidiane offerte di frutti salvifici e d’immagini incomparabili; ma anche corrucciato e minaccioso, angosciante per i suoi moniti visibili e scritti a tutta lettere tra le rocce striate del fuoco e nelle ceneri deposte durante le passate eruzioni (neppure troppo lontane), nei tremori odierni e nei sussulti del suo cratere.
Ecco il Vesuvio verdeggiante all’ombra delle viti;
Qui l’uva è stata pressata e ribolle nei tini;
Ecco i gioghi e i colli amati da Bacco più di Nisa;
Questo è il monte sul quale danzavano ieri satiri e ninfe;
Questa è la casa di Venere […]
Ora tutto è sepolto, cotto dal fuoco e coperto di cenere…
È il Vesuvio di Marziale, che, nel passar del tempo, è poi anche quello di sempre. E questo è anche il mondo di Franzese, che nei suoi mutamenti trasecolanti finisce per esser sempre se stesso. Antico e sempre nuovo insieme. La sua pittura, addensandosi, si rifà perciò, come la terra, spessore materico, ritmica ardita organata agli eventi. Mi viene di definirla un tropo, ovvero la trasposizione di un senso altro e mutante o di un diverso attributo rispetto al significato dato alle cose dal tempo, registrato nella lingua e nella storia degli uomini. Geologia dei primordi. Un simbolo, insomma, che non annulla la materia o la natura delle cose in quanto tale, ma che avvolge il loro stato mutevole e transeunte con un linguaggio che potrebbe esser definito oracolare, assimilato per sua natura in quello della poesia che è anche colore e brillio, “un raggio di luce”, come diceva il russo Andrej Belyj, “che può trapassare una serie di vetri immaginari”. È, insomma, la formazione di un discorso interiore e prelogistico, un messaggio “ispirato e trascendente”, e che Franzese scorge nei costitutivi geologici del suo impareggiabile vulcano, quel Vesuvio che ha di fronte a sé, a un tiro dalla profondità dei suoi pensieri sorgenti come fumo appena accennato dal profondo dell’inconscio. È l’eccezione prospettica della sua vita, percepita quasi a un tiro di schioppo ad ogni spuntar del giorno, quando con rito abituale s’affaccia per scrutarlo dal terrazzo di casa e carpirne gli umori e gli improvvisi possibili capricci. E si capisce. Quando diciamo simbolo, indichiamo in fondo qualcosa di indeterminabile e d’indefinibile, “una pluralità di sensi”, come dicono i linguisti, che si espande intraducibile dall’immagine dell’oggetto evocato sulla tela e penetrata in ogni anfratto del nostro sapere compenetrandolo. Ciò non significa che la pittura di Franzese non sia motivata; tutt’altro, perché anzi sono le sue profonde motivazioni socio-culturali che lo portano a determinarne il senso espanso e simbolico. L’intraducibilità e l’imponderabilità in un segno nuovo è il suo alibi, ma anche la sua forza persuasiva, immediatamente percepibile, come può esserlo una curva, un colore o un grumo.
Ecce Vesbius: ecco il Vesuvio, “milioni di scintille, migliaia di pietre nere che sibilano, cadono, rotolano, precipitano; eccone una a cento passi da me. D’un tratto l’abisso si chiude e subito si riapre… La lava frattanto raggiunge l’orlo del cratere, si gonfia ribolle, cola…” Hic est Vesbius…
G. Battista Nazzaro